Valore di un marchio debole: la parola “Boss” è registrabile come marchio?

Secondo quanto elaborato dalla giurisprudenza, per marchio debole si intende quel marchio che, seppur registrato, gode di una tutela giuridica attenuata rispetto al marchio forte (si parla della c.d. capacità distintiva ridotta, ossia di quella capacità del marchio di comunicare in modo inequivocabile la sua provenienza da un determinato imprenditore). Quest’attenuazione di tutela è prevista per evitare che vengano monopolizzate parole, soprattutto di uso comune, e che diventino, così, di appannaggio di un solo imprenditore e che questi possa vietarne l’uso ad altri.

Se chiunque potesse appropriarsi di un temine usato nel linguaggio corrente al fine del suo sfruttamento commerciale fuori dai casi di secondary meaning (ossia di un “secondo significato” che può acquisire un termine originariamente privo di capacità distintiva successivamente acquisita), arriveremo all’assurdo di dover reinventare lo stesso linguaggio corrente. Ed è proprio con l’ordinanza del 16/10/2014 – RG. 46028/2014, che è stato stabilito che le parole di uso comune di un segno distintivo escludono il monopolio in capo al titolare del marchio che le contiene.

Sulla stessa linea di quanto avvenuto in occasione dell’ordinanza di cui sopra, la parola “boss”, essendo divenuta di uso comune, non può essere oggetto di registrazione di un marchio ad uso esclusivo. Ne sono prova le due “battaglie” vinte da soggetti “comuni” dinanzi al colosso multinazionale “Hugo Boss”; da ultimo quella combattuta nei confronti de “Il boss dei panini” che ha ottenuto l’accoglimento del suo ricorso proposto a fronte di un’opposizione da parte di “Hugo Boss” per la registrazione del marchio del primo. Nel caso di specie, tra l’altro, non risulta alcuna vertenza nei confronti delle diffuse serie televisive italiane “Il boss delle cerimonie” o “Il boss delle torte” che, com’è evidente, integrano nel proprio marchio una parola di uso comune.

Un altro caso ha visto come parte il comico inglese Joe Lycett, che ha cambiato il suo nome in Hugo Boss come forma di protesta contro il colosso tedesco. Questa protesta è stata avviata da Joe, oggi Hugo, a fronte delle molteplici diffide da parte della casa di moda tedesca contro piccole aziende che facevano uso della parola “Boss” nel proprio marchio e obbligandole, così a sostenere ingenti spese legali e di rebranding (processo a seguito del quale un marchio viene trasformato acquisendo una nuova identità).

Queste sono solo alcune delle cause in cui le parti più deboli hanno vinto, ma è sempre necessario essere affiancati da un professionista competente per far valere i propri diritti e ricevere adeguata tutela.

Dott.ssa Claudia Tortorici